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Il Caso Ed Gein: l'identità non è devianza

2025-11-03 18:00

Chiara Affaitati

Trauma e gossip,

Il Caso Ed Gein: l'identità non è devianza

L’attrazione si estremizza e diventa necessità di appropriazione: il corpo della donna non è più soggetto ma oggetto simbolico da possedere e ricomporre.

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L’uscita della nuova stagione Netflix di “Monster”, dedicata alla storia di Ed Gein, riporta al centro dell’attenzione una figura che, nel corso del tempo, è diventata quasi mitologica: il “macellaio di Plainfield”, l’uomo che ispirò personaggi come Norman Bates e Buffalo Bill e la cui mitizzazione prende molto spazio all’interno del racconto proposto da Ryan Murphy. 

 

Ma al di là degli atti di orrore e violenza a cui il pubblico viene esposto senza remore, ciò che rimane realmente disturbante è come i media, e talvolta anche la clinica, abbiano provato a spiegare tali atti sovrapponendo concetti che non coincidono: transessualismo, ginefilia, perversione, identità di genere. Termini usati come se fossero sinonimi ma che descrivono realtà e vissuti completamente diversi. 


 

Il peso delle parole: tra identità e patologia

 

Negli anni Cinquanta, quando Gein venne arrestato, il linguaggio della psichiatria era profondamente segnato da categorie oggi superate. Il termine transessualismo veniva impiegato per descrivere chiunque mostrasse un desiderio di assumere tratti del sesso opposto, spesso interpretato come segno di devianza.


In questo caso la lettura fu quindi immediata: il suo desiderio di “indossare la pelle di una donna” fu associato a una presunta volontà di diventare donna, di “trasformarsi”, una forma forse originale ed estremizzata di un desiderio di transessualità. La realtà clinica però, osservata con occhi contemporanei, è un’altra. Nel suo caso non c’è una vera ricerca identitaria di genere ma piuttosto una fusione delirante con la figura materna.


Gein non vuole “essere” una donna: vuole riavere la madre, riportarla in vita, incorporarla. Il travestimento e la costruzione di un “abito di pelle” sono espressione di un lutto patologico, di una psiche che tenta di annullare la perdita fondendosi con l’oggetto amato.


 

Ginefilia: dalla femminilità al possesso

 

Nella parte finale della serie viene introdotto il concetto di ginefilia: un termine meno noto ma centrale per comprendere la dinamica psichica di Gein. La ginefilia descrive un’attrazione intensa verso la femminilità o il corpo femminile, che in alcuni casi patologici può trasformarsi in una forma di feticizzazione e dominio. L’attrazione si estremizza e diventa necessità di appropriazione: il corpo della donna non è più soggetto ma oggetto simbolico da possedere, manipolare e ricomporre a piacimento. 

 

Tale eccessivo possesso può essere a maggior ragione osservato nell’intreccio col tema dello stupro post-mortem. Nella serie Gein, con terribile lucidità, afferma di non considerare i suoi atti come veri e propri “stupri”, proprio perché le vittime in qualità di cadaveri non avrebbero in ogni caso potuto acconsentire. Nonostante non sia accertato se il killer abbia messo in atto realmente violenze sessuali sui corpi delle donne che dissotterrava, ciò rivela il nucleo profondo della sua perversione: il corpo femminile non ha valore in quanto corpo ma solo come contenitore simbolico del desiderio e del potere di un uomo. Nell’assenza di consenso Gein trova paradossalmente una forma di controllo assoluto dove l’altro, ridotto ad oggetto (spesso letteralmente), non può più rifiutare, non può dire di “no”. È il punto estremo della deumanizzazione del femminile: la donna come strumento, al pari di una lampada o una sedia, dove non ha più nulla di un essere umano. Un corpo da cui trarre desiderio, utilità, divertimento ma mai con cui entrare in relazione. 
 

 

Tra trauma e fusione: il riparo della psiche 

 

Dal punto di vista psicologico, la condotta di Gein può essere letta come il tentativo disperato di riparare a una perdita insopportabile, quella della madre, figura dominante e moralmente repressiva. La sua sessualità è intrisa di colpa ma anche di idealizzazione: la donna è insieme oggetto di desiderio e figura sacra, da proteggere e possedere. Nel momento in cui la madre muore, l’unico modo per “riaverla” è incorporarla. Il femminile diventa allora una materia da ricreare, e il corpo, vivo o morto che sia, un mezzo attraverso cui contenere l’assenza.

 

Questa logica del “possedere per non perdere” è alla base di molte dinamiche di controllo e violenza, anche lontane dai casi estremi. Ogni volta che l’altro viene ridotto a estensione del proprio bisogno, che sia affettivo, sessuale o identitario, si ripete in forma più o meno sottile quella stessa logica di appropriazione.

 

 

Oltre Gein: comprendere per non confondere

 

Parlare oggi di Ed Gein significa anche fare i conti con la responsabilità del linguaggio. Per decenni, termini come transessualismo o perversione sessuale sono stati usati in modo interscambiabile per descrivere realtà molto diverse, alimentando stigma e confusione. Gein non rappresenta l’identità di genere, ma la sua distorsione patologica, frutto di trauma, isolamento e ossessione. Ridurre la sua storia a una questione di “sessualità deviata” significa non comprendere la complessità della mente umana quando perde i propri confini. Significa non dare dignità a chi lotta ogni giorno per sentirsi a proprio agio nel proprio corpo, che a sua volta diventa di nuovo vittima, di nuovo devianza, di nuovo psicopatologia. 

 

Oggi, comprendere fenomeni come la ginefilia patologica o la necrofilia non serve a giustificare, ma a distinguere. A ricordare che ogni atto di violenza nasce da un pensiero che ha smesso di vedere l’altro come soggetto. Il vero orrore, più ancora del gesto, sta nel momento in cui il desiderio perde la relazione e resta solo potere.

 

 

Dott.ssa Chiara Affaitati

 

 

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